Scultura, Pittura e Intarsio

Vincenzo Gemito

Questa è la storia di un artista che a Napoli chiamavano lo scrittore pazzo.

La sua vita ha affascinato tanto il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo, che gli dedicò un libro, ancora quando Gemito era immerso nella sua vita burrascosa.

Abbandonato nella ruota degli esposti, all’Annunziata, è accolto in collegio e chiamato  Gemino, ovvero generato, nome dato a tutti  agli orfanelli. Ma l’errore di uno scrivano segna il suo destino e il suo cognome diventa Gemito; sì proprio gemito, come una  nota di dolore e  proprio il dolore, travestito da forme agili, caratterizzerà la sua produzione.

Nato dal popolo e dalla “fame bruta che torce le viscere”, guarderà il mondo della sua Napoli dandole  forme  travestite di classicismo .Di intraprendete carattere si reca presto  dai maestri  artigiani  di Napoli per  proporsi come apprendista. Arriva  così da un vecchio maestro Emanuele Cangiano  per apprendere l’arte della lavorazione scultorea che sente nelle sue brucianti come il fuoco. Condivide, inoltre,   la sua giovinezza con Antonio Mancini, con cui inizia i primi studi.

Lo chiamavano spiritato! Gemito che ritrae Napoli brulicante e febbrile: quella  Napoli dei bassifondi, degli scugnizzi, immortalando le sue  forme viventi:  i vicoli, le   nudità, gli scugnizzi sono impressi nella cera,  nella terracotta e nel bronzo assumendo cosi’  “anima e cor”.

Cosi Gemito,raccoglie proprio  i gemiti della sua città in quello spirito napoletano che unisce  “miseria e nobiltà” e che mescola in forme nuove ma anche classiche, uniche nel contrasto di essenze: classiche ma tutte partenopee.

Studia l’arte classica attraverso i bronzi  di Ercolano, cercando di attingerne la nobiltà delle forme a cui lega una forte vena realistica : gli scugnizzi così sono agili, nervosi e naturali; nei pesca torelli  convivono forme ellenistiche  e propriamente calate nel  mondo napoletano. Un ibrido armonioso e nuovo.  I suoi tratti sono nervosi , spesso spezzati , carichi di disperazione. Vincenzo  guarda in faccia il vero e lo lascia lì  immediatamente impresso  senza finzione,  perché Gemito vuole scoprire il volto che c’è dietro Napoli, lontana dai miti e dalle nobiltà.  Lì vi scopre  una bellezza nascosta assiepata nella   folla  di popolane, di  nutrici , di pescatori, di  bambini svestiti e senza nome come lui che sono ritratti nel vivo,  come sono esistite, come Gemito  li guarda  e  li  fissa in forme eterne. Il mondo è per lui crudele ma l’arte è salvifica e lo riscatta  attraverso una bellezza sincera e schietta,  come la vedeva “O scultore pazz”!

Arrivano così i primi successi : si classifica tra i primi nove posti al Real Istituto d’Arte , mentre nel 1868 il suo  Giocatore in Terracotta è acquistato da Vittorio Emanuele II per il Palazzo di Capodimonte . Gli viene assegnato poi  l’incarico  di realizzare la statua di Carlo V nella fonderia, da lui aperta a Napoli,  per collocarla sulla facciata del Palazzo Reale;  ma Gemito odia il marmo, non fa per lui, troppo poco malleabile alle sue mani di fuoco e così preso da un attacco di follia, perché non soddisfatto della resa della statua, la prende a sassate. Inizia proprio da quel momento  così a  vivere di  passioni violente. La prima passione forte è  l’arte, la seconda è  l’amore: così  incontra una modella napoletana   che sposa e ossessionatamente,  ma anche diabolicamente, ritrae fino al delirio.

Nella Reggia di Napoli gli viene assegnata una sala per la sua arte: qui però  inizia a vedere  dei fantasmi  e comincia a cogliere in quelle ombre che lo inseguono  chi possa rubargli la materia prima della sua arte. Questi sospetti dolorosi, irrazionali, lo condurranno  fino alla follia tanto che verrà poi portato in manicomio e da qui scapperà con  lenzuolo fino a casa,dove si rinchiuderà per 18 anni a realizzare le sue  forme . Accresce  nel frattempo il mito dell’artista dannato dalla sua stessa arte, da ciò che rappresenta la sua ragione di vita.

Nella ‘ultima parte della sua produzione artistica incentrerà la sua attenzione sulla produzione orafa in oro e argento  con la realizzazione di oggetti dotati di un’eccezionale bellezza, eleganza e raffinatezza spesso dal valore anche simbolico.

Muore nella Fonderia Laganà , mentre sta  per terminare un lavoro, colto dal calore della fusione da un forte malore. E’ il I marzo del 1929.